Iniziate la compilazio come un gioioso atto di suicidio

Non ci sono dubbi che milioni di anni dopo che il sole avrà smesso di bruciare, una vibrazione della civiltà umana continuerà ad oscillare in perpetuo movimento, sottoforma di spettro elettrico in giubbotto di pelle e teschio fiammante, costretto in eterno in una danza epilettica in quello che i nostri sensi interpretano come un cimitero di auto e lamiere. Un ritmo idiota come il ghigno stampato sul volto del fantasma, bordate di tastiere che replicano il suono dell’apertura dei cancelli di un’acciaieria, sciorinare di versi con la convinzione di un bonzo rinchiuso in una cella imbottita. Prendendo spunto da un fumetto  mica tanto di serie bis della Marvel (ci lavorano artisti del calibro di Thomas, Wolfman e persino un giovane Byrne), i Suicide, Alan Vega e Martin Rev, nel 1977 aprono il loro omonimo debutto, consegnando alla storia una dei più gioiosi manifesti apocalittici dai tempi di San Giovanni.
E con un immaginario da fine del mondo, meglio se condito da visioni industriali, clangori metallici e plumbee violenze, amano sporcarsi le mani i Cop Shot Cop. E' bene chiedersi più tardi del perché nella mai così vera “Everybody Loves you (When you’re dead)”, si travestano da crooners da frequenza media, inizino un finto rock per teenager bagnate, salvo poi crollare nel ritornello ubriaco e molesto. Forse l’unica canzone vera e propria di un album esiziale a partire dalla copertina, con il bambino capellone, sporco di fango, con una mazza in mano e un urlo animalesco rivolto all’incauto acquirente. Immagine che ben si concilia con la successiva “Little Children”, traccia dove il compositore Axelrod, classe 1936, coniuga voci bianche, sinfonie orchestrali, ritmi pigri e leziosi con il rappato di Ras Kaas. Su carta suona ridicolo, su disco, non si sa perché funziona. Eccome se funziona.
Fa un freddo cane qui a Roma, inevitabile proseguire quindi con “Impressions of an African Winter” dei Clock DVA: atmosfera congelata in attesa del vuoto tagliante delle chitarre, lo scorrere lento e dinoccolato del sassofono che si arrampica sul colpi di batteria ora placidi ora incalzanti, le liriche di chi ne ha le palle piene del termometro (esistenziale) perennemente sotto lo zero. Manca solo che nevichi è la desolazione è completa
La neve ce la mettono appunti i fratelli chimici, in quello che è in lizza, con “the Queen of Denmark” (stay tuned per la prossima compilazio) di John Grant, come miglior album 2010 di Radio Carlonia (“Further”). Bassi cresciuti ad ormoni ad attentare la virtù di Stephanie Dosen, sorta di versione americana e zozzetta di Elizabeth Fraser.Che non sembra dispiacerle per niente, mentre recita uno dei testi più cretini di tutti i tempi. Poco male perché il pezzo celebra il matrimonio psichedelico tra i cluster del tempo dello zucchero con lo shoegaze, sotto l’egida della grande E e di Wanna Marchi.
E visto il clima glaciale, non  rimane che scaldarci sulle note di “Tank!” Dalla colonna sonora di Cowboy Bebop. Quintessenza della Coolness, Jazz da cartone animato- anime, pardon- ideale tanto per la vostra rassegna casalinga di spaghetti-Spy-movie quanto per mettere a tacere il vostro arcinemico degli aperitivi, che vi subissa a colpi di Burial e ninja tune, pontificando sul fatto che il nu jazz debba esser per forza triste e depresso.
E se ancora rompe, giocate sporco, spezzandoli una sedia sulla schiena accompagnati dalle melodie sixties di Jan & Dean che – mi dicono- fanno impazzire le donnine, così cariche di arrangiamenti, sitar incluso, a nascondere una malinconia da fine estate. Alla fine della stagione, aggiungete un incidente che nel 1966 privò Jan di alcune delle sue funzioni psico-fisiche ed un ossessione al dettaglio che faranno si che “Carnival of Sounds” di fatto non vedrà mai la luce, se non nel 2010, in guisa di Frankenstein assemblato dal produttore Andrew Sandoval[1] per quelli della Rhino.
Inevitabile dopo il caviale del Carnevale di suoni, farsi una bella bistecca di Maiale, grassa ed unta. In “Power to the People”, cover dei Music Machine e non dell’inutile John Lennon[2], gli spagnoli “Tokyo Sex Destruction” ricalcano in maniera calligrafica il brano originale, mettendoci una buona dose di propellente acido ed anfetaminico.
E a proposito di drogucce, si plana sul finale con una “Cary Gran’t Wedding”, dove Mark E. Smith perde tempo a capire dove si trova, salvo realizzare di essere rimasto indietro e mettersi a rincorrere i compagni nel chorus, per finire, visto il fisico gracilino, spompato e disorientato al matrimonio di uno dei protagonisti di “54”.
Da Buster Keaton a Jake Burns, ci sono tutti, manca solo la straziata Francis Farmer cui dedichiamo una “we are the niggers of the world” di un altro, Anton Newcombe, che rischia di veder annichilito l’enorme talento dai propri demoni interiori.

Charlie “Aguirre” Scarpino

[COMPILATIO NON PIU' DISPONIBILE :-( ]


Traccia (Gruppo; Album)

01.Ghost Rider (Suicide; Suicide)
02.Everybody loves you when you're dead (Cop Shoot Cop; Ask Question Later)
03.The little children (David Axelrod; David Axelrod)
04.Impressions of an African Winter (Clock DVA; Thirst)
05.Snow (The Chemical Brothers; Further)
06.Tank! (Yoko Kanno; Cowboy Bebop OST)
07.Carnival of Sound (It's Jo & Danny; Carnival Of Sound)
08.Power to the People (Tokyo Sex Destruction; The Singles)
09.Cary Grant's Wedding (The Fall; Totally Wired)
10.We are the niggers of the world (The Brian Jonestown Massacre; My Bloody Underground.)
 


[1] Si rimanda ad un bell’articolo uscito su onda rock (http://www.ondarock.it/speciali/jananddean_carnival.htm)
[2] Chapman out of jail

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